29/08/14

Il potere discende dalla dea delle acque sotterranee | LE TRE VIE

....ed egli prometteva che la testa mozza sarebbe stata, venerando cimelio, l'oracolo dinastico.[qui]

Georges Bataille sostenne che la repubblica francese si reggeva sul rito della decapitazione di Luigi XVI: gli archetipi si camuffano ma non scompaiono. Della decapitazione e della dea parlò anche M. Piantelli, dell'Università di Torino, estendendo la rete delle analogie dall'India a tutta l'Eurasia, richiamando anche il simbolo del corvo nell'alchimia occidentale: decapitato, diventa d'argento. Agli stupiti ascoltatori indiani Piantelli sciorinò una gamma di esaltanti riscontri, che comprendevano l'equazione fra Krsna che seduce le bovare col flauto e il pifferaio di Hamelin. Il potere discende dalla dea delle acque sotterranee. Madre e Amante, fonte dell'eloquenza e del terrore. Ma come avviene il congiungimento d'un popolo con lei? R. Nagaswamy, uno storico di Madras, illustrò i riti che trasformano in Dea Madre una terra selvaggia, preda di spiriti immondi. Prima si definiscono i confini con acqua lustrale e canti vedici, poi si fissa il centro a partire dal quale il territorio si squadra e ripartisce, assegnando ogni fondo a una parte dell'anno, fondendo tempo e spazio.

Infine si enuncia: « Possiedo te, Madre, e tu assumi la potenza virile» e si seppellisce una cassa nel centro. In essa si saranno deposti i simboli necessari: figurine di verri, cocchi e scettri se gli abitanti sono guerrieri, di cibi, pesci, aratri se sono lavoratori. Su quel centro e grembo sorgerà il tabernacolo o il palazzo del sovrano, l'amante della dea; alla periferia si disporranno invece effigi feroci e tutelari. Queste sono fra le prime figurazioni dell'arte: J .S. Maxwell, dell'Università di Reading, ne mostrò alcuni stupendi esempi che costituiscono la più antica testimonianza di culto della dea - pre-islamica, pre-indù -, finora ignota, presente nelle Maldive. Il territorio è concepito come un loto e il sovrano al suo centro è il dio seduto sul loto, montagna cosmica che largisce le acque: Visnu. La sua iconologia fu esposta da R. Parimoo dell'Università di Baroda: è dio della pace e anche del combattimento, armato, di mazza e disco, sole e luna.

Rappresenta l'irresistibilità del tempo e del potere regale: dell'ordine cosmico. Perciò nella poesia tamil, richiamata da R. Champakalakshmi dell'Università Nehru di Delhi, tempio e palazzo si designano con le stesse parole, l'omaggio al sovrano e l'adorazione del dio si confondono, i bardi lodano i re nelle stesse forme con cui esaltano le divinità del suolo. Come mai nel secolo VII i re tamil cominciarono a favorire, ìnvece del culto di Visnu, quello di Siva, legato alle classi più basse? Forse perché il culto religioso e quello monarchico si erano venuti separando e occorreva un rovesciamento di prospettiva per riconfonderli? Ma se i re rivendicavano un culto divino, si imponeva dialetticamente l'esigenza che rinunciassero al potere per diventare pura divinità. M.N. Deshpande, dell'Università di Nuova Delhi, illustrò il tema del re che al culmine del potere deve coronare la sua carriera diventando asceta. Il motivo non è soltanto giaina e buddhista, ma intrinseco all'induismo stesso.

Il poeta Jnànesvara del secolo XIII esalta il re ideale che si fa romito, per il quale già nella fase meramente regale la spada simboleggia la concentrazione misuca, l'armatura l'impassibilità, il nemico l'ostacolo interiore alla liberazione, e il trionfo in battaglia la vittoria su ogni vincolo mondano. In realtà già la cerimonia indù dell'incoronazione comportava che il re diventasse ritualmente il Creatore, l'Embrione dell'universo, e simboleggiasse l'unificazione interiore dello yoga: i suoi paramenti designavano appunto questi fini supremi, come illustrò G. Marchianò. Nella sensibilità indù intimo è il nesso fra i due opposti, la nudità ascetica e lo sfarzo regale: Churchill non sapeva di aggiungere prestigio a Gandhi quando lo dileggiava chiamandolo «il fachiro nudo ». Dopo il convegno mia moglie e io si volle raggiungere ancora Anand Krishna a Benareso.

Un lento velivolo a elica percorse le soavi verdissime campagne luccicanti al sole, sorvolò il biancore del Tàj Mahal, i templi di Khajuraho. . . Centro della nostra residenza a Benares fu un ristorante brahmanico. Il suo cortile era avvivato dalle tinte squillanti dell'affresco che copriva uno dei muri: una fila di prue nere sul Gange. Ci si restrinse al cibo rigorosamente castigato, che generava quella casta, offrendone la gamma di sapori sfumati e sontuosi. Si usciva esultanti per strade orrendamente ostruite da folle compatte entro le quali avanzavano di volo le vetture. Ci si deve inoltrare sorretti da una calma inespugnabile, trasognati, sempre a un filo dalla torma, dai veicoli dardeggianti, dalle schiene di mucche. Si perveniva ai templi sulle sponde, alle librerie dove volumi inattesi si offrivano all'occhio desideroso. Accademie squisite si aprivano in vicolacci di sterco e mota, ingombri di bufali nerastri, dove comparivano asceti nudi dagli occhi rossi.

Qualche volta in una nicchia si svelava un dio, da una finestra si scorgeva l'interno d'un tempio coi sacerdoti recitanti attorno al fuoco. Si giungeva infine ai vialoni dell'università indù, alla facoltà di Ayurveda, al dipartimento di Alchimia, infine alla facoltà di Filosofia. Annovera due insegnamenti separati, l'Advaita Vedànta e il Tantra. Nell'uno si ragiona, nell'altro il ragionare rinvia a una ginnastica e a un'erotica. Insegnanti distinti impartiscono l'uno o l'altro: il tantrista ha uno sguardo intenso e tumultuoso, l'advaitino un sorriso faceto. Un giovane monaco thai ci fu deputato per la sua erudizione traboccante e ci scortò nei giorni successivi per tutti i monumenti della sua religione sparsi nel contado; la plebe dei senzacasta lo riveriva e così riviveva l'India dell'anno mille. Nella miriade di pensieri che mi rampollarono in quei giorni per quelle strade e sponde, si trovava quello che ora detta queste paginette consacrate ai tre sentieri che si aprono all'Indù.
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